Il cinema verticale di Paolo Gioli

Nel 1930, quando la comparsa del sonoro costrinse i tecnici a riconsiderare la dimensione dell’immagine, Sergei Eisenstein propose di ripensare il rettangolo. Nella sua lezione “Il quadrato dinamico” argomentò che il fotogramma 4:3 era stato ereditato dalla pittura accademica e dal palcoscenico in uso in Occidente e che non aveva la sua origine in natura. Mise pure in evidenza come l’Asia avesse una forte tradizione di opere d’arte a sviluppo verticale e in particolare i rotoli dipinti nella Cina e le xilografie giapponesi. La dimensione verticale – diceva – offriva altrettante possibilità creative del suo opposto.

Lo sforzo di Eisenstein per riportare la verticalità nel cinema è stato solo un tentativo a metà. Lui cercava un quadrato dinamico che garantisse ugual peso a tutt’e due gli assi.

Paolo Gioli è andato più in là. Nella sezione aurea del fotogramma a 16 mm, molti dei suoi film mostrano e esaltano la propensione verticale del congegno. Nel metodo, ci ricorda un periodo della storia del cinema in cui gli standard tecnici non erano ancora stati fissati. Nel corso di queste esplorazioni egli crea, attraverso la scansione strisciante della pellicola, nuove immagini di spazio, tempo e corporeità.

La cinepresa (stenopeica) eretta di Gioli prende letteralmente la misura del soggetto, come fosse un metro di legno per la misurazione dei tessuti. In Filmstenopeico (1973), ogni porzione di film presenta un tema dall’alto verso il basso catturandone la visione da 47 punti dello spazio, leggermente distanziati. In proiezione tuttavia esso produce l’effetto di uno sfarfallio spasmodico, con l’oggetto che si muove a scatti tirando il fondo del fotogramma. Il trascinamento dell’immagine verso il basso prodotto dalla cinepresa di Gioli tende a cancellare l’interlinea, consentendo di sottrarci al predominio del rettangolo fisso.

Se in Filmstenopeico ci son troppe poche interlinee, in compenso in Commutazioni con mutazione (1969) ci viene incontro un’ epidemia di strutture cellulari. Ancora una volta il movimento è soprattutto verticale. Ma appena le immagini rappresentate cominciano a muoversi verso la parte bassa del fotogramma lasciando vedere la colonna sonora che oscilla, perforazioni, graffi, grumi di colore, siamo costretti a prendere atto dell’arbitrarietà del rettangolo. Le interlinee e le perforazioni sono a volte inclinate alle estremità, quasi a creare un nuovo formato del fotogramma che rispetti il flusso del cinema verso il basso.

Ma il lavoro più completo di Gioli sul cinema verticale sembra essere Anonimatografo (1972). Da un film amatoriale di una famiglia dell’epoca del muto egli crea un affresco di un epoca esaltando particolari domestici informali e intimi. L’inquadratura introduce un film che si sviluppa attraverso varie forme di immagini doppie sia su fotogramma singolo che in movimento. Le immagini caleidoscopiche fanno pensare a un album fotografico o a diapositive stereoscopiche.

A un certo punto la verticalità sembra creare orizzontalità: due donne ad una festa sembrano clonarsi fino a invadere un’intera stanza. Verso la fine di Anonimatografo compare invece la verticalità suprema: una pioggia di graffi minuscoli che però non cancellano l’immagine (minuto 20:20)

Tutto il cinema di Paolo Gioli è disponibile nel box dedicato in edizione Rarovideo.